Tutti comprendono la differenza tra un desiderio e un bisogno, tuttavia entrambi provengono da un volere e questo fa si che possano essere confusi nella loro essenza intrinseca.
Nel 1954 lo psicologo statunitense Abraham Maslow teorizzò un modello conosciuto come la Piramide di Maslow dove vengono differenziate le tipologie di bisogno che gli esseri umani provano nel corso dell’intera esistenza. L’assunto fondamentale che sta alla base di questo modello è che solo una volta soddisfatti i bisogni del livello inferiore diventa possibile che emergano i bisogni del livello successivo. Il concetto fondamentale parte dal presupposto che esistono bisogni definiti primari, come nutrirsi oppure sentirsi protetto, e finché questi non sono soddisfatti totalmente non si riescono a percepire i bisogni quali il riconoscimento o l’autorealizzazione. Banalmente, quando si ha fame non si pensa ad altro che a procurarsi il cibo; non è prioritario in quel momento che gli altri siano partecipi del proprio modo di pensare.
La parola desiderio deriva dal latino e risulta composta dalla preposizione de, che in latino ha sempre un’accezione negativa, e dal termine sidus che significa stella. Desiderare significa letteralmente “mancanza di stelle”, nel senso di “avvertire la mancanza delle stelle”, dei buoni presagi, dei buoni auspici; quindi per estensione questo verbo ha assunto anche l’accezione corrente intesa come percezione di una mancanza e, di conseguenza, come sentimento di ricerca appassionata.
Quindi, affinché i desideri possano emergere alla consapevolezza almeno i bisogni fisiologici e spesso anche quelli legati alla sicurezza devono essere stati soddisfatti; solo allora si può immaginare di ricercare appassionatamente “le stelle”.
Nel ciclo della Gestalt il bisogno emergere alla coscienza da un momento di riposo e spinge alla sua soddisfazione per poter ritrovare l’equilibrio omeostatico. Ma il ciclo gestaltico prevede anche delle disfunzioni nel ciclo. Per esempio, se il bisogno non riesce a emergere alla consapevolezza si parla di desensibilizzazione del bisogno; cioè l’individuo sente una spinta che non riesce a definirsi a livello cosciente e per questo il bisogno non può essere soddisfatto. Tuttavia a livello profondo si continua a percepire un senso di disagio che non si ha la capacità di definire.
Gli esseri umani a differenza di tutti gli altri mammiferi o altri esseri del regno animale per essere indipendenti hanno bisogno di un tempo evolutivo considerato lunghissimo. Infatti, dalla nascita e fino a un’età abbastanza distante da quel momento non si riesce a soddisfare neanche i bisogni più banali. Da neonati non si sopravvive se i bisogni primari non vengono soddisfatti dagli altri e durante l’adolescenza (e sono già passati circa 10/11 anni) ancora si è ancora in grado di riuscire a accaparrarsi le risorse necessarie per la sopravvivenza, il cibo. Tutto questo con le dovute eccezioni dalle quali derivano trami molto profondi.
I bisogni che governano lunga parte dell’esistenza umana nelle fasi che vengono definite dello sviluppo possono rimanere ancorati nell’individuo e indirizzare logiche comportamentali e modelli di pensiero anche in età adulta.
L’adulto, per definizione è colui che riesce a soddisfare i propri bisogni in maniera autonoma, è autosufficiente e non necessita dell’altro per riuscire a raggiungere il proprio obiettivo. E se è vero che per “costituzione” l’essere umano è e resta un animale sociale che non riesce a essere resiliente in maniera individuale, ciò non significa che esso si debba appoggiare all’altro per la soddisfazione dei propri bisogni. L’autonomia nella soddisfazione del bisogno è fondamentale perché permette di essere liberi e permette viceversa all’altro la stessa libertà. Tra adulti l’altro non è necessario per la soddisfazione del bisogno, ma è colui con il quale si condivide e ci si accompagna.
Tuttavia, può accadere che la reciprocità e il mutuo aiuto che sono parte integrante della natura umana vengano interpretati come un dovere di soccorso e questo comporta la limitazione della libertà individuale degli individui. Il no è una risposta possibile, ma questa risposta è difficile da veicolare perché crea separazione, divergenza, differenziazione; il no individua ciascuno nella propria solitudine. Inoltre, può essere associabile alla paura del giudizio, al senso di colpa o ancor peggio al “ricatto morale”. Chi non ha sperimentato la paura che il proprio rifiuto possa coincidere con la diminuzione dell’amore, del rispetto, del soccorso che l’altro potrebbe prestargli quando si troverà a sua volta nello stato di bisogno?
In parte il bisogno “rende schiavi”; infatti quando si è nello stato di bisogno non si è in grado si essere consapevoli del mondo intorno e questo può spingere a usare l’altro per il proprio scopo. Questo circolo vizioso ha un impatto fondamentale sulla psiche di entrambi gli attori coinvolti nello scambio reciproco. Risulta difficile comprendere quando si è incastrati in relazioni che non permettono di esprimere la proprio dimensione per paura del giudizio o ancor peggio qualcosa che potrebbe interrompere la relazione stessa. Tuttavia è importante considerare che una relazione tra adulti non limita le esigenze dell’uno o dell’altro, ma è una continua negoziazione tra sé e l’altro.
Diventa importante allora ricordare la differenza tra il pensiero cosciente dell’adulto è il pensiero magico del bambino. Il bambino spesso “accontenta” chi si occupa di lui perché a livello cognitivo non ha ancora le strutture che gli consentono di capire che il genitore, o chi per lui, lo amerebbe ugualmente. L’adulto sa che l’amore che l’altro nutre nei suoi confronti non diminuisce se non soddisfa il suo bisogno; ma lo soccorre e lo supporta perché sceglie consapevolmente e non perché ha paura o si senta ricattato.