“Libertà va cercando, ch’è si cara”. Dante Alighieri
In cerca della libertà molti stavano uscendo di casa. Nella Fase 2, come nella fase precedente ciascuno interpretava le regole secondo le proprie possibilità. Comprendevo perfettamente che per chi era abituato alla socialità, allo stare insieme agli altri per la maggior parte del tempo della sua quotidianità, al contatto con la natura o con il corpo dell’altro, stare in casa da solo poteva essere insopportabile. Mentre per tutti coloro che erano costretti a vivere in più persone dentro casa la ricerca di momenti di evasione dallo spazio confinato in cui erano obbligati diventava utile quasi come respirare. Ciascuno a suo modo tentava di “resistere”!
Ne andava della sanità mentale, alla quale avevo l’impressione che non si stesse prestando abbastanza attenzione. Per evitare di perdere il proprio equilibrio mentale, il proprio modo di riuscire a non impazzire, ciascuno interpretava e conseguentemente si comportava rispetto a regole predefinite. Questo accadeva nella vita di sempre e non si era modificato sostanzialmente durante la quarantena e l’isolamento.
Il nostro cervello non solo apprende e costruisce connessioni durante la fase dello sviluppo, ma è dotato anche di una grande capacità di costruzione; quella costruzione si esprime nei costrutti mentali dei quali ci autoconvinciamo, attraverso la percezione che ciascuno si fa del mondo intorno a se e nelle idee e pensieri che elabora interpretando i dati di realtà.
E per questo motivo i comportamenti e gli atteggiamenti si differivano rispetto a quello che avveniva e che avevamo la possibilità di vivere contemporaneamente, per la prima volta tutti insieme in questo secolo e sicuramente per quelli dalla mia generazione in avanti.
Come Jung aveva ben descritto in uno dei suoi testi, ci sono persone che per specificità caratteriali sono maggiormente propense all’introversione e altre all’estroversione; senza che questo debba necessariamente significare che in generale durante il corso della loro esistenza non riescano a trovare dimensioni nell’una o nell’altra caratteristica. Ma il prevalere di una sull’altra sollecita a prendere decisioni di un certo genere piuttosto che altre rispetto a quello che si vive; tali decisioni derivano anche da sentimenti, sensazioni e emozioni che vengono esperiti.
L’interpretazione del dato di realtà rispetto a una situazione limite e al tipo di atteggiamento e volontà che spingono gli esseri umani a autocontrollarsi, a continuare a sperare e desiderare quasi oltre ogni possibilità, era a mio avviso ben rappresentata dalla vita di Nelson Mandela.
La sua autobiografia mi aveva colpito profondamente, non solo per quello che aveva fatto durante i ventisette anni di detenzione in una cella microscopica, ma soprattutto il motivo che lo aveva spinto. Aveva continuato strenuamente a credere in quelle che erano le sue idee e cercare il modo per poterle realizzare. Nel periodo di segregazione Mandela aveva letto molti libri in inglese e nel corso della detenzione aveva imparato alla perfezione quella lingua conoscendone grammatica e perfino il parlato del gergo comune. Tutto questo aveva come scopo comprendere profondamente la storia e la cultura di quell’oppressore, l’altro, che rendeva il suo popolo e lui stesso schiavi nel loro stesso paese.
A cosa ci “serve” l’altro, il diverso, l’estraneo che vive intorno a noi e con noi nella stessa realtà? Lo vogliamo possedere, ridurre in una condizione dove esiste una gerarchia di qualsiasi genere, intellettuale, culturale, economica, oppure integrarlo? Solo attraverso l’integrazione con il diverso possiamo riuscire a vivere invece di sopravvivere o di resistere; solo in quel modo abbiamo la possibilità di esprimere il nostro potenziale di essere umani.
Quella era il grande insegnamento di Mandela. Solo tramite la visione e la comprensione totale dell’altro in situazioni in cui ciò ce abbiamo ci può spingere all’egoismo, all’individualismo, alla sottomissione, alla totale esclusione o alla paura dell’altro possiamo cambiare il mondo.
“È quello che facciamo di ciò che abbiamo, non ciò che ci viene dato, che distingue una persona da un’altra”. Nelson Mandela