Guardando un intervista a uno dei maggiori divulgatori di scienza che avevo imparato a amare da qualche anno la frase conclusiva mi aveva profondamente colpita: <<noi siamo cenere di stelle bruciate, polvere di stelle>>. Cioè dobbiamo la nostra esistenza all’esplosione di stelle durante il processo di creazione della nostra galassia. Ogni volta che ascoltavo quell’uomo parlare delle connessioni tra scienza, filosofia e psicologia mi scoprivo a riflettere sulla miriade di connessioni che esistono tra le “materie”, e quanto la nostra piccolezza, la nostra finitezza potessero impedirci di poterne entrare in contatto.
Il video che M.A. aveva inviato sul gruppo quel giorno era forse strettamente collegato a quel tipo di riflessioni. Non riusciamo a essere consapevoli dell’infinità di ciò che ci circonda se non ci fermiamo, se non prestiamo attenzione, se non impariamo che il correre e la velocità, la nostra idea di tempo, è legata solo alla nostra percezione.
Forse CoViD19 ci aveva in parte messo a contatto con la dilatazione del tempo che per gli esseri umani ha un andamento lineare e costante, mentre invece osservato nell’infinitesimamente piccolo o nel macroscopicamente grande perde di significato: non esiste, non è un parametro valido.
L’idea che il mondo si fosse fermato fuori dalle nostre case, di poter vivere in una bolla di tempo quasi inesistente aveva favorito la dilatazione infinita per alcuni e il restringimento, per altri, di quel tempo che in genere veniva definito in maniera inequivocabile dalle routine di ciascuno.
Erano un bel po’ di anni che non avevo una vera e propria routine, qualcosa di fissato e immodificabile che scandisse le mie giornate, e forse questo mi aveva facilitato la dimensione della quarantena; forse per questo adesso che con la Fase 2 sarebbe stato più semplice uscire non ne sentivo una grande urgenza. Sicuramente con le belle giornate e il calore che con l’avvicendarsi dei giorni aumentava si prolungava il tempo che trascorrevo sul mio microbalconcino, prendendo il sole oppure dedicandomi a altre attività. Con la finestra spalancata seduta su una comoda poltrona reclinabile potevo trascorrere un tempo infinito a guardare fuori dalla finestra verso il panorama circostante: i tetti delle case, il monte, il campanile, la strada e i giardini fuori dal borgo.
Notavo che il numero delle automobili sulla via era aumentato, che si vedevano ciclisti e corridori affrontare il tratto in salita che si inerpicava verso destra rispetto alla visuale del mio balcone. Ma il rumore dei differenti cinguettii non diminuiva; potevo distinguere quello un po’ stridente delle rondini, il tubare costante dei colombi e quello ancor più lieve di fringuelli e passerotti. Per lo meno solo quelli riuscivo a riconoscere date le mie scarse conoscenza in materia.
E in quel rumoroso silenzio mi sembrava quasi di fluttuare; forse quei momenti erano un tramite che mi facevano percepire e assaporare il nostro essere <<casa del mondo, pezzi del puzzle>>. Quel meraviglioso puzzle che è l’universo del quale conosciamo così poco e rispetto al quale appariamo talmente piccoli da sembrare quasi ridicoli.
Qualche estate prima leggendo Jodorowsky mi ero annotata una frase che tentavo di ripetermi nei momenti bui, nelle fasi oscure che attraversavo: <<dobbiamo imparare a ridere di noi stessi>>. Ridere sia delle nostre angosce, che in confronto all’immensità sono insignificanti; ma anche sorridere della nostra puerile tendenza a pensare di essere qualcosa di più di infinitesimamente piccolo.