E alfine avevo ceduto! Non mi ero nemmeno quasi alzata dal letto, rimanendo avvolta come in un caloroso bozzolo avevo acceso il computer e caricato un infinito numero di puntate della mia serie preferita. Preparata la colazione su un vassoio avevo portato tutto in camera per consumarla a letto.
Avevo smesso di resistere, avevo smesso di ironizzare, per tentare di migliorare la situazione che stavo vivendo, avevo ceduto le armi. E il nulla mi aveva riempito.
Non mi chiedevo il perché, non tentavo di dare spiegazioni, non mi arrabbiavo perché quella situazione all’improvviso si era sostituita al benessere e la vitalità dei giorni precedenti, non rimuginavo: tentavo di non pensare. Mi drogavo di serie e di cibo.
Consapevole; non mi sentivo ne male ne bene, ma mi ascoltavo. Sentivo di non riuscire a fare, che non potevo sapere, che non sarei potuta essere nulla di diverso, che quello era l’unica modalità per finire quella giornata: di divenire.
E se d’altronde quel trauma collettivo che vivevamo poteva insegnarmi qualcosa era proprio riuscire a vivere quella sensazione di destabilizzazione potente. Cosa sarebbe successo nessuno poteva saperlo: come sarebbe stata la mia vita fuori da quel nido nel quale qualcuno, o qualcosa di invisibile, mi confinava? Qualsiasi cosa fosse da microscopico era riuscito a trasformarsi in macroscopico e in abnorme, di limitante e che sembrava avere una potenza illimitata.
Un piccolo potente e illimitato nucleo mi dava la possibilità di trovare il confine, il limite tra la vita operosa e attiva e la vita dell’inedia. In quell’inedia, spesso accantonata, nascosta, evitata, però, forse avevo la possibilità di trovare una nuova modalità di esistere e di scendere, di arrivare, di giungere in un nuovo luogo, di trovare la via.