Un gioco di parole che lavora su due livelli conoscere noi stessi per conoscere il mondo, ma anche entrare in relazione per attivare la voglia di conoscere. Questo è il titolo dell’elaborato che ho presentato per la discussione per conseguire l’abilitazione del corso di Specializzazione per le attività di sostegno didattico. Ho deciso di riportare in breve parte dell’elaborato poiché riguardava anche e soprattutto la relazione d’aiuto, il counseling. Uno dei testi fondanti di Rifkin, La civiltà dell’empatia, mi ha fatto scoprire, molti anni fa, una delle grandi tematiche legate alla relazione, l’empatia, tratto fondante di ogni essere umano.
Nel mio elaborato ho tentato di portare avanti un assunto che lega la pedagogia della narrazione e la pedagogia della relazione d’aiuto, due modalità di approccio all’insegnamento che a mio avviso risultano maggiormente efficaci. Dalle bellissime pagine del testo di Luigina Mortari, Filosofia della cura, ho tratto gli spunti fondanti di una tesi che avalla la cura come strumento fondamentale per riuscire a attivare quella che la Lucangeli chiama warm cognition, che permette a ogni studente di sperimentare il piacere di imparare e che è strettamente connessa con l’empatia.
Attraverso il racconto di quattro tappe fondamentali della mia esperienza di studente ho dimostrato come il riconoscimento e la narrazione del mio percorso scolastico e universitario mi abbia permesso di diventare la persona che sono. La Mortari, dimostra come la maggiore difficoltà di ogni essere umano sia quella di essere, di esistere come essere unico e irripetibile; di sviluppare quel nucleo vivente che siamo. La cura permette a quel nucleo di potenzialità che è in noi di attualizzarsi, di potersi aprire all’ulteriore. Questa cura è sostanzialmente espressa dalla capacità di entrare in relazione profonda con “l’altro”, il diverso, che è semplicemente qualcuno che non siamo noi. Una relazione educativa, sia che vogliamo intenderla di aiuto o meno, è sempre una relazione e quando siamo in relazione, come dice Laura Boella, in Sentire l’altro, se riteniamo che conoscere significhi percepire, non solo un altro corpo, ma anche un’anima abbiamo la possibilità di attivare nel reciproco riconoscimento una nuova nascita per entrambi.
La relazione attiva necessariamente emozioni e capacità empatiche, se soprattutto come dice Thomas Gordon riconosciamo che la maggior parte degli studenti va disperatamente alla ricerca persino di una briciola di dignità e di valore di sé stesso. E comunque lo scopo di un docente è il bambino, o il ragazzo, il resto è solo il mezzo, insegnamento compreso.
In quella relazione, in qualità di educatori abbiamo la possibilità di entrare in contatto con l’identità di ciascuno dei nostri studenti e quell’identità è una trama da dipanare. Poiché tutti abbiamo bisogno di dare un senso, un significato, un disegno alle nostre esistenze. Leggendo il più noto libro del neurologo Oliver Sacks mi aveva molto colpito la storia di una delle sue pazienti con disabilità cognitiva grave che in una delle sedute gli confidava che senza una trama rischiava di andare in pezzi. Ciascuno di noi corre quel rischio, il rischio di non trovare il coraggio di essere sé stesso e soprattutto la possibilità di divenire continuamente altro.
Tutto questo è supportato dalle scoperte neuroscientifiche, che ci danno contezza di quanto l’apprendimento sia un processo continuo che inizia dal primo istante della vita, e probabilmente ancora prima e che il cervello costruisce le esperienze coscienti con un significato emotivo, quindi sostanzialmente relazionale. È compito del docente lo sviluppo dell’intelligenza emotiva, quell’intelligenza che permette di esprimere le qualità relazionali e sociali dell’essere umano. Non siamo esseri resilienti autonomamente, la nostra sopravvivenza è legata all’altro, sin dai primi istanti della nostra esistenza. E come l’economista Adam Smith affermava già alla fine del ‘700 anche nel ricercare il proprio vantaggio personale ogni individuo è portato naturalmente a <<preferire l’impiego più vantaggioso per la società>>. Abbiamo una predisposizione, siamo inclini a farlo, ma abbiamo dimenticato la nostra vera natura e soprattutto ci educano a competere e non a collaborare. Scegliere un’educazione, una conoscenza, che stimoli la competizione significa sostanzialmente non rispettare l’apporto che il “diverso”, l’altro, può dare. Intraprendere invece un’educazione che solleciti la naturale inclinazione a essere empatici, a poter comprendere l’altro senza doverci sentire inclusi in lui o esclusi e soli, vuol dire insegnare a ciascuno la propria unicità e irripetibilità.
<<Le […] relazioni personali, comprese quelle all’interno dei contesti educativi, hanno un potere psicologico sorprendente>> (Immordino-Yang, 2016, p. 15) perché <<il bambino [o ragazzo] che trova l’insegante a sostenerlo con una presenza che sa accettarlo per come è, e con fiducia accompagnarlo a divenire altre forme possibili del suo pensare e del suo sentire, può sporgersi sull’ulteriore dell’esserci senza spaesarsi nell’angoscia>> (Mortari, 2015, p. 26) del non riuscire a essere e continuare a divenire. L’equilibrio psicologico aiuta a proteggere <<salute e benessere>> (Goleman, 1985, p. 15) e solo in una condizione di benessere può avvenire un apprendimento significativo.