La giornata era stata connotata da un diffuso senso di fastidio, ma me ne ero resa definitivamente conto solo sul tardi. Ero nervosa.
Già la sera precedente un messaggio su una delle chat di gruppo mi aveva infastidito; ero stata indecisa se rispondere o meno, in genere evitavo di farmi agganciare in discussioni sterili, soprattutto nel mondo virtuale. Avevo spento il telefono e stavo per concludere tutte “le operazioni della notte”, quelle prima di andare a letto, ma quelle parole scritte mi tornavano in mente; mi accorgevo che utilizzate in quel modo sminuivano non solo il mio modo di pensare e di essere, ma anche la mia professionalità e alla fine non avevo saputo resistere, avevo riacceso il telefono e avevo risposto. Quel gesto mi aveva enormemente acquietato la mente, dopo averlo inviato mi sentivo soddisfatta; mentre gradualmente mi rilassavo sotto il tepore delle coperte percepivo una sorta di godimento che si diffondeva dentro di me. Mille volte in quelle chat avevo trovato cose inutili, banali, deleterie e perfino gravi, ma non mi ero mai permessa di denigrare il pensiero degli altri. Soprattutto in quel periodo.
Conoscevo bene il funzionamento psicobiologico che ci porta a usare la mente e attuare il comportamento che riteniamo più opportuno: tutto strettamente correlato al modo di percepire il mondo, di rappresentarselo e di ragionare su di esso. E sapevo anche che principalmente durante i momenti di crisi le paure possono prendere il sopravvento e che proiettarle all’esterno è uno dei modi che si possono usare per “tenerle a bada”.
Quella volta, però non “ci stavo”, il funzionamento dell’altro mi interessava relativamente: mi sentivo attaccata e diventava importante per me ritagliare il mio spazio, evidenziare la mia presenza. Ugualmente era accaduto al supermercato proprio quel giorno.
Mentre aspettavo il mio turno alla cassa, dietro il nastro posizionato da poco sul pavimento per sottolineare le distanze da mantenere, una signora aveva iniziato ad aggirarsi per le casse farfugliando con le commesse i suoi problemi. Avevo capito che voleva passare avanti agli altri in fila per pagare un’unica cosa e avevo continuato a osservarla. Forse perché non c’era nient’altro da fare. Alla fine dei suoi giri si era posizionata davanti a me in attesa che la signora che mi precedeva finisse di pagare. Dopo qualche istante, avevo esordito verso di lei con voce sonante: <<prego, passi pure!>>; si era immediatamente allontanata dalla cassa blaterando di non avermi vista e cantilenando una serie di scuse e giustificazioni. Ma allorchè era arrivato il mio turno l’avevo invitata a passare avanti e lei ne aveva approfittato.
Quando finalmente mi ero avvicinata alla cassiera, per terminare l’iter del passaggio dei prodotti sul nastro della cassa, questa mi aveva fatto notare che aveva continuato anche lei a osservarne il comportamento della “saltafile” senza capirne il senso. Sarcasticamente avevo affermato: <<non vorrei che questo coronavirus ci disumanizzi ancor più! Ormai l’altro sta diventando il nostro nemico, qualcuno da eliminare, da allontanare e da non riconoscere; invece, è soltanto un altro essere umano>>!
Non c’era stata risposta, e nemmeno forse nessuna risposta era possibile; nell’avvicendarsi del cliente successivo, né la cassiera, né chi aveva iniziato a appoggiare la propria spesa sul nastro o quelli che erano intorno forse aveva voluto sentire la mia frase. Ma l’averla detta per me era stato importantissimo: ancora una volta mi trovavo a esprimere in maniera precisa il mio pensiero e quindi a ritagliare il mio spazio nel mondo e forse, in quel caso, a proclamare anche la mia più grande preoccupazione.