La nottata non era stata delle migliori. Mi ero svegliata varie volte, i sogni che facevo non erano definibili come incubi, tuttavia il disagio che provavo mi costringeva quasi a risvegliarmi per non continuare a percepirlo. C’erano fiumi, persone, una gita da fare, case sull’acqua, compiti da completare con la figlia di un’amica, bambini che entravano dentro la casa senza permesso ai quali intimavo di uscire … e poi, quell’ultima parte di sogno che non si era concluso a causa del suono della sveglia che mi richiamava alla realtà. Un sogno dove progettavo una casa o quattro?
Tutto quell’affastellarsi di forme, parole, luoghi, sensazioni, fastidi avevano continuato a insidiare il mio benessere in quella mattinata, tanto che il programma che avevo stabilito per era andato a “carte quarantotto”. Tra le attività previste quella che mi creava maggiore difficoltà era il pensiero di uscire di casa e andare a fare la spesa.
Eppure, l’ultima volta che ero uscita di casa per recarmi al piccolo supermarket del paese avevo scoperto che la signora che serviva al banco del fresco aveva delle idee simili alle mie e mi aveva fatto piacere fermarmi a parlare con lei per qualche minuto. Andavo di rado nel negozio del paese, preferivo fare la spesa direttamente presso i piccoli produttori, oppure tramite il gruppo d’acquisto solidale, e in ultimo nei supermercati dove non si trovavano prodotti della grande distribuzione. Avevo iniziato però a frequentarlo con una certa regolarità per comprare le uova e la ricotta che sapevo arrivavano direttamente dal circondario del paese.
Quel giovedì di ritorno verso casa mi ero attardata tra i vicoli, non avevo fatto la solita stradina, una scorciatoia che dall’entrata nel borgo arrivava nel modo più veloce possibile davanti alla mia porta, ma avevo scelto di percorrere la strada più lunga possibile. Era ora di pranzo e il centro storico era completamente deserto. Non avevo incontrato nessuno e il silenzio di quell’ora era quasi totale, il ritorno del freddo non permetteva neppure che i suoni degli interni delle abitazioni fuoriuscissero dalle finestre aperte, e faceva risuonare i miei passi sulla pavimentazione. La giornata era connotata da un grigiore del cielo che si rifletteva sui colori delle antiche case del paesino, ma nonostante tutto la bellezza di quel posto e l’aria che respiravo mi aveva fatto sentire in pace, con me stessa e con il mondo. Quelle sensazioni che spesso mi capitava di provare da più di un anno, da quando vivevo lì, mi davano sempre più la certezza che la scelta che avevo fatto era la migliore possibile per la mia vita di quel momento.
Questa certezza era stata confermata varie volte dall’inizio della quarantena, vivevo in un posto che avevo scelto con cura, in una bella casa luminosa; una casa adeguata alle mie esigenze che mi permetteva quando mi affacciavo alla porta-finestra del piccolo balconcino esposto a sud addirittura di potermi sdraiare al sole nelle belle giornate, dove potevo godere di tanti confort e con sufficiente spazio da potermi permettere di liberare la mia creatività senza limiti. Una volta ero perfino riuscita a fare dentro casa body painting senza sporcare quasi nulla!
Sentivo quella casa proprio come un nido, non come la gabbia in cui l’isolamento ci aveva costretto a vivere, o come rifugio dalla cattiveria del mondo come lo era stato in passato. Nido in tutti i suoi significati: il luogo che mi accoglieva amoroso, quello dove avevo la possibilità di essere nutrita e crescere, il luogo che raccoglieva e che permetteva di cercare in me stessa l’espressione di tutte le mie qualità e anche di tutto ciò che volevo modificare.
E allora, se quel giorno decidevo di non lasciarla, di non uscire di casa, probabilmente era la scelta migliore!