In uno dei film che un po’ tutti si “sparavano a manetta” nei giorni dell’isolamento avevo sentito una frase che mi aveva fatto riflettere: <<Nella vita se uno vuole capire come stanno veramente le cose deve morire almeno una volta>>. Chiusi in casa, alcuni soli altri in tanti in appartamenti non adeguati a contenere h24 un numero di persone con spazi ed esigenze diverse, forse stavamo “morendo” un po’. Sicuramente stavamo imparando che le morti che nel mondo avvenivano quotidianamente, ma lontano dai nostri occhi e dal nostro cuore non erano più in un orizzonte lontano e difficile da immaginare; stavamo forse imparando che tutti quei paesi dove morivano a decine ogni giorno per “mantenere” il nostro tenore di vita adesso non erano più un “altrove”, come lo aveva definito qualcuno! Le riflessioni che quell’isolamento ci costringeva a fare potevano riguardare molti aspetti della nostra vita e della nostra cultura, e questa era forse l’unica speranza in quei momenti bui!
Continuavano le giornate “nere”, quelle in cui avevo volontariamente deciso di interrompere ogni contatto o quasi col mondo, spegnendo il telefono e chiudendo la connessione; erano giornate in cui cominciavo a avere paura di uscire di casa. Ma sapevo che a breve avrei dovuto farlo, le mie provviste erano agli sgoccioli.
Dopo i giorni della spinta a uscire per qualsiasi cazzata, tabacchi, fotocopie, piccole derrate alimentari, sempre più si stava impossessando di me l’orrore del fuori.
Cosa ci avrei trovato? Cosa non ci avrei visto, di riconoscibile e riconosciuto? Cosa ci sarebbe stato alla fine di quell’ isolamento forzato? Avremmo rimosso in fretta le paure ricominciando a comportarci peggio che mai, oppure avremmo finalmente preso consapevolezza dell’infinita fragilità del nostro sistema?
Di una cosa ero quasi certa, niente sarebbe stato come prima, e non solo per me! Probabilmente era una banalità esprimere un concetto simile, ma ugualmente non potevo impedirmi di farlo.