Ecco che cosa mi stava insegnando quella quarantena: che lo scorrere lento di giorni che a un occhio disattento potevano apparire simili o addirittura identici era connotato da diversi stimoli.
Mi sentivo come una ricetrasmittente in grado di ricevere miliardi di input, di segnali che arrivavano da canali differenti e che avevo la possibilità di elaborare e ritrasmettere o addirittura amplificare.
Quello era stato lo scopo principe della pubblicazione del mio diario del periodo di isolamento, avere la possibilità di mantenere quella connessione col mondo esterno che il virus tentava di negarci. Tutti vivevamo insieme la stessa esperienza nello stesso momento storico e potevamo condividerne emozioni e sensazioni, rispecchiandoci e riflettendoci l’uno con l’altro. In quel modo il segnale si amplificava e avevamo la possibilità di renderlo maggiormente impattante.
Ma gli stimoli che ricevevo potevano essere catturati solo perché mi ero messa in una disposizione d’animo che mi rendeva possibile riceverli. Nella corso dell’esistenza questa capacità è tipica delle prime fasi dello sviluppo, già durante la pre adolescenza e purtroppo anche molto prima si può iniziare a essere apatici di fronte agli input che la vita ci invia e questo può avere un impatto deleterio sulla qualità dell’intera esistenza stessa.
Tra le poche persone che avevo conosciuto e frequentato nel corso dei non pochi anni che avevo già vissuto C. era tra quelle che mi aveva trasmesso l’importanza di tenere posizionato il canale di ricezione in modalità aperta. Quella modalità dipende essenzialmente dalla fiducia che accordiamo alla vita stessa, ma soprattutto alla certezza che questa abbia un suo senso: il senso intrinseco del vivere. Nella lezione di filosofia morale di quel giorno il professore si era soffermato a ribadire quel concetto: la vita come premessa che ci permette di vivere e come promessa che quel vivere sia già dotato di senso. Solo la fiducia in quella promessa implicita permette che venga vissuta pienamente la vita e che quel senso possa realizzarsi solo vivendo.
Quindi dovevamo cercare di tenere acceso il nostro canale: in modalità ON, altrimenti quello che ci accadeva non veniva recepito nella sua essenza e tutto poteva sembrare banale e inutile; ci poteva addirittura far apparire la vita una lotta insensata contro avversità di ogni genere. Ci voleva però un grosso impegno a rimanere, a “stare”, in quella modalità e poteva apparirci talvolta più semplice invertire il canale e girare su OFF.
C. mi aveva insegnato e dimostrato che rimanere in modalità ricettiva fosse possibile nonostante un grande problema fisico. Come lei era stata in grado di trasmettere a me, nel corso dei molti anni della nostra amicizia, quella fiducia e quella disposizione d’animo che affondavano le loro radici nella certezza che le nostre risorse interne siano infinite e che attraverso di esse possiamo addivenire al significato più profondo della vita, adesso che sapevo che lei stava poco bene mi sarebbe piaciuto poter essere io la trasmittente dalla quale partiva il segnale verso la sua direzione. Non avevo molte probabilità di poter inviare il mio segnale in maniera netta e pulita, tanti ostacoli si frapponevano; eppure non avrei smesso di canalizzare il mio invio verso quella direzione, in attesa e fiduciosa di un feedback positivo che avrebbe permesso di rilanciare la scarica e amplificare nuovamente il segnale: ancora più lontano.