Mi sentivo finalmente bene! Da circa una settimana ero contenta, niente di fondamentalmente diverso era accaduto nel trascorrere lento delle mie giornate, ma le vivevo con animo leggero. L’inquietudine delle settimane precedenti si era trasformata in un quieto e pacato vivere.
Avevo ricominciato a relazionarmi, per quanto fosse possibile in quarantena, attraverso lunghe chiacchierate telefoniche o videochiamate, ma anche attraverso mail e lunghi messaggi. Mi faceva piacere sentire di nuovo gli altri; ma mi accorgevo che l’altro era parte del mio orizzonte in una maniera differente, sia che si trattasse di amici di vecchia data che di persone che frequentavo in occasioni o ambiti specifici.
Paradossalmente in quella quarantena avevo constatato più che mai che non volevo essere isolata, che il virus che potenzialmente poteva farci considerare l’altro ancora di più un pericolo non aveva preso il sopravvento e che invece di essere preoccupata per la mia sopravvivenza mi ero avvicinata all’altro. La solidarietà si può manifestare solo nella vicinanza. Infatti, ero e mi sentivo solidale; la propensione verso l’altro mi si era amplificata e questo non mi aveva tolto niente, anzi.
Per gran parte della mia vita la vicinanza dell’altro mi aveva agitato; rimanevo vigile, in uno stato di allerta che prevedeva un dispendio di energie elevatissimo. Per tale motivo avevo poi bisogno di stare tanto tempo sola. Adesso i miei momenti di solitudine erano invece indispensabili per indagare profondamente dentro di me per “ascoltarmi”, per comprendere cosa volessi e di cosa avessi bisogno; erano lo spazio infinito dove avevo la possibilità di perdermi e trovare nuove dimensioni e non riguardavano l’altro.
Sola, isola.
Nessun uomo è un’isola, citava la poesia che troneggiava sul mio frigorifero. Tra le tante parole che andavano di moda negli ultimi anni, spesso ritornava “interconnessi”. A molti avevo sentito dire: <<siamo tutti interconnessi>>, probabilmente per qualcuno si trattava di un’ovvietà mentre a qualcun altro poteva apparire incomprensibile.
Quel virus ci aveva dimostrato cosa significasse: nell’essere interconnessi ci eravamo trasmessi il virus e gli avevamo permesso di propagarsi in maniera esponenziale e nel doverci rinchiudere dentro casa potevamo rischiare di spezzare quella connessione. Perché la connessione si può manifestare solo nella relazione e la paura dell’altro diventava l’impedimento a relazionarci.
Più che mai fuori da ogni logica, nel mio caso la paura dell’altro era sparita proprio nella sua mancanza, non banalmente perché se non c’era non potevo averne timore; ma perché proprio nel momento in cui ero obbligata a di distanziarmi dall’altro smettevo di avere paura di incontrarlo e volevo stargli vicina. Era una vicinanza che aveva a che fare con la prossimità, con il mio prossimo.
Continuavo a voler stare sola, ma isola di un arcipelago.
Durante gli ormai cinquantaquattro giorni di quarantena avevo attraversato vari periodi di solitudine e in alcuni casi avevo fatto fatica a trovarli, soprattutto all’inizio quando non essere in costante contatto con gli altri poteva dare adito a fraintendimenti sulle mie condizioni di salute. Ma sempre più avvertivo di non ricercare in quella solitudine un modo per escludermi: si era trasformata in una nuova modalità di stare con gli altri, per includerli nell’orizzonte di quell’arcipelago dove desideravo vivere.