Avevo aperto gli occhi e guardato l’orologio: erano circa le otto del mattino! Da quanto tempo non accadeva di svegliarmi a quell’ora senza che la sveglia mi costringesse? Sicuramente dall’inizio della quarantena era capitato pochissime volte; avevo ripreso la vecchia e amata abitudine di svegliarmi con calma, come definivo gli orari della tarda mattinata in cui decidevo di uscire “allo scoperto”, fuori dal dolce tepore del letto!
Mia nonna negli ultimi anni della sua vita riusciva a stare a letto per un tempo infinito, non perché fosse costretta o depressa, ma perché le piaceva; mi guardava e diceva: <<vado a coricarmi un pochino>> e quando la accompagnavo e aspettavo che si mettesse sotto le coperte mi guardava con uno sguardo felice dicendo: <<che c’è meglio del letto?>>. Evidentemente quella sensazione di quiete e felicità nello stare sotto le coperte era genetica, anche mia madre da quando era andata in pensione la cosa che più apprezzava era poltrire nel letto la mattina. Nella sua camera aveva incorniciato e appeso un aforisma di Samuel Johnson “La parte più felice della vita di un uomo è quella che trascorre nel letto la mattina”.
Eppure quel mattino non solo mi ero svegliata di buon ora, ma avevo sentito anche la necessità di levarmi dal letto e alle 9.30 ero già operativa nonostante la lezione di quel giorno iniziasse dopo mezzogiorno e la sera prima avevo considerato che ciò mi avrebbe permesso di alzarmi con calma.
Da un paio di giorni percepivo con forza l’energia scorrere nel mio corpo, la vitalità e la voglia di fare erano di nuovo attive e il cattivo tempo non aveva impattato più di tanto sul mio umore. Quella mattina aprendo gli occhi, immediatamente, dalla finestra aperta avevo potuto constatare che il bel tempo era finalmente tornato e questo evidentemente amplificava la mia carica vitale.
Le mie operazioni delle prime ore dopo il risveglio riguardavano sostanzialmente la mia attività lavorativa che in quel periodo era ridotta all’osso. Tutto il lavoro doveva essere svolto precedentemente l’inizio delle lezioni universitarie che alcuni giorni mi occupavano quasi fino a sera o mi lasciavano talmente stremata da non poter più fare altro. Grazie al CoViD, infatti, avevo avuto la possibilità di frequentare i corsi che tutti gli atenei erano stati costretti a attivare online e questo era coinciso proprio con il semestre in cui si tenevano le lezioni delle materie per me più ostiche. Quel giorno, molto prima che il corso iniziasse avevo quasi concluso tutto il lavoro della giornata e perfino cucinato il pranzo.
Il pranzo pronto così di buon’ora mi ricordava l’altra mia nonna e il sugo messo a bollire per ore sul fuoco; quel ricordo aveva odori e sapori peculiari. Infatti, era legato ai rimproveri sorridenti di quando un po’ prima dell’ora di pranzo, o di ritorno dalla scuola o a casa per le vacanze, noi bambini ci avvicinavamo alla pentola per rubare l’intingolo succoso immergendovi grossi pezzi di pane. Ricordo i rimproveri tra il serio e il faceto e la sua viva preoccupazione che il sugo non sarebbe bastato per condire la pasta di tutti, per tale motivo a volte ci rincorreva intorno al tavolo per scacciarci dalla cucina mentre noi ridendo tentavamo di rubacchiare ancora.
Tutto intorno a me appariva in quella giornata equilibrato e armonioso in ogni sua manifestazione: euritmico. Verso sera mi ero accorta che anche la percezione dello scorrere del tempo si era modificata rispetto all’ultima settimana; una sorta di dilatazione del tempo magicamente mi permetteva di poter realizzare molto più e molto più velocemente tutto ciò che mi ero prefissata.
Come non goderne?