Alla fine avevo smesso di resistere, di lottare. Ogni volta che provavo a alzarmi dal letto mi accorgevo che i motivi che mi spingevano a farlo erano associati a dei doveri.
<<Devi fare questo>>, <<devi fare quell’altro>>, <<devi fare quell’altro ancora>>, ma quando la domanda per me più importate arrivava: <<cosa voglio veramente?>> la risposta appariva in tutta la sua potenza <<voglio stare a letto!>>.
Alfine avevo ceduto, non me lo ero concessa richiedendo in cambio qualcosa a me stessa, avevo solo detto va bene. Avevo seguito il mio volere senza chiedere spiegazioni o un contraltare. Avevo ceduto a quella volontà che poteva apparire screanzata, inadeguata e senza senso e avevo trascorso un intero giorno dentro il letto.
Non era il primo e probabilmente non sarebbe stato l’ultimo della mia vita, ma spesso quando accadeva era complicato non tentare di resistere. Era come se quella parte di me che per un tempo molto lungo della mia esistenza si era sentita in colpa nell’inattività e nel non fare non riuscisse a darsi pace. Raramente arrendersi alla pigrizia totale riusciva a trasformarsi in soddisfazione pura. Per questo adoravo avere la febbre!
Quando avevo la febbre potevo stare a letto e sentirmi appagata totalmente. Altre occasioni in cui la pigrizia totale era stata ammessa nel corso della mia vita erano i giorni dopo gli esami universitari. Al ritorno dall’università qualsiasi ora fosse, mangiavo e mi stravaccavo sul divano o sul letto a guardare la TV per tutto il giorno dell’esame e per il giorno successivo.
Una di quelle volte era coincisa con gli internazionali di tennis del foro italico e la sensazione di godimento che avevo provato sdraiata sul divano a guardare le partite era ancora impressa in maniera indelebile nella mia memoria, nonostante fossero trascorsi oltre vent’anni.
Diventava significativo riuscire a smettere di lottare, di ingaggiare un conflitto tra le mie parti: quella che voleva stare a letto e quella che ogni volta che accadeva si faceva sopraffare dalla paura e dall’ansia.
Quella paura e quell’ansia non erano espressamente legate alle cose che pensavo di dover fare, ma arrivavano, lo sapevo bene e da tempo, da un luogo ben definito: dove all’ansia che potessero coincidere con i sintomi di una possibile depressione si alternava al terrore che provavo ogni volta che mi sentivo in stallo. Essere immobile, immobilizzata, inattiva, mi creava un disagio enorme; mi scuoteva profondamente l’idea che qualcosa o qualcuno potesse impedirmi di poter procedere nel mio cammino, di fare quello che volevo o che mi ero prefissata. Era lo stesso motivo che mi faceva schizzare come una belva inferocita ogni volta che qualcuno mi tagliava la strada in macchina o mi obbligava a andare alla sua velocità quando il sorpasso diventava difficile.
Ma per fortuna, quella volta la paura che ci fossero impedimenti sul mio cammino o che chissà chi potesse interporsi tra me e la mia meta non era una possibilità. Sentivo che nonostante rimanessi inattiva sotto le mie coperte, risorgevo comunque a nuova vita. Che una rinascita era in atto e che niente e nessuno avrebbe potuto interporsi.