Già dai primi istanti seguiti al risveglio avevo percepito qualcosa. Non avevo messo la sveglia per quella mattina, la consueta sessione di “studio telefonico” che avevamo attivato con C. qualche tempo dopo l’isolamento era saltata e così avevo potuto rimanere nel letto a lungo dopo aver aperto gli occhi. Quando avevo iniziato a muovermi per casa, preparando la colazione provavo una sensazione alla quale non riuscivo inizialmente a dare un nome, ma che gradualmente cominciava a emergere alla coscienza con un significato specifico. Sentivo un vuoto. Ma che vuoto? Non riuscivo a comprendere a cosa si riferisse quel vuoto e perché lo stessi provando.
Mi ero prefissata un obiettivo lavorativo che doveva essere concluso entro quella giornata, quindi la riflessione sulla sensazione che mi avvolgeva era stata accantonata dal momento in cui mi ero concentrata sulla preparazione della lezione.
Fino a sera impegnata al computer e in altre faccende non avevo avuto modo di ripensarci. Quando però mi ero ritrovata accoccolata sul divano in cerca di qualcosa da fare prima di andare a letto, quel senso di “disagio” si era ripresentato. Era diventata consuetudine quando non riuscivo a definire a livello di pensiero le mi emozioni, sensazioni e percezioni provare a dargli forma disegnando, dipingendo, o scarabocchiando. Anche quella sera avevo deciso di procedere in quel modo e preso l’album da disegno avevo selezionato colori a cera dura e morbida e pastelli. I colori si affastellavano sulla pagina ruvida dell’album, ma non riuscivo a dargli un senso; avevo provato varie volte a rigirare il foglio per verificare che la forma potesse apparire da un’altra prospettiva, ma così non era stato. E con quel senso di insoddisfazione avevo riposto tutto e mi ero avviata verso la camera da letto.