Qualche giorno fa sul bordo di una piscina deserta presso casa di conoscenti, mentre gli altri si erano rifugiati all’interno per la gran calura, nelle prime ore del pomeriggio mi godevo lo spettacolare silenzio interrotto soltanto dal frinire delle cicale. In lontananza si scorgevano i campi circostanti e sollevandomi sul lettino mi sono accorta, oltre la ringhiera che cingeva la zona piscina, della presenza di un orto. Pomodori, zucchine, melanzane e peperoni maturi e in bella vista mi facevano venire l’acquolina in bocca! Mentre stavo immobile a osservare il panorama mi è tornata in mente la strofa “meriggiare pallido e assorto, presso un rovente muro d’orto“. Il cellulare non aveva campo e soltanto di ritorno a casa ho potuto cercare la poesia. Dei ricordi scolastici rimaneva solo la strofa, avevo assolutamente dimenticato che l’avesse scritta Eugenio Montale, che il titolo fosse tratto dall’incipit o di cosa trattasse la poesia. Rileggendola tutta, le ultime strofe mi hanno colpito: per lungo tempo della mia vita ho pensato che la vita fosse qualcosa di faticoso e difficile. Forse in questo periodo la fatica la sento molto e in fondo anche la difficoltà, ma guardando profondamente dentro di me percepisco che tutto ciò è solo parte di qualcosa di più grande e incomprensibile.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.