Quella via della quale non sapevo la destinazione era costernata di persone gentili e piacevoli occasioni. Al mattino mi ero espressamente affacciata sulla porta a ritirare il bidone della spazzatura, predisposto la sera prima per il servizio di porta a porta, solo per poter scambiare qualche parola con i vecchietti che abitavano nel vicolo e che avevo visto dalla finestra appoggiati su alcuni scalini a prendere il sole. La loro casa non aveva un grande affaccio a sud e spesso, da quando erano stati intimati a non frequentare la piazza del paese, nelle belle giornate avevano preso l’abitudine di sedersi su quegli scalini in cerca di tepore.
Avevo voluto vincere la mia solita timidezza, ero stata io dopo i saluti a chiedere come stavano e così ci eravamo intrattenuti qualche momento. Mi aveva fatto piacere: mi facevano tenerezza.
Negli ultimi tempi avevo notato che la mia idiosincrasia nei confronti degli anziani diminuiva sempre più. Non avevo mai avuto molta pazienza con la “vecchiaia”! Una sorta di terrore nei confronti della senilità mi aveva impedito di provare sentimenti di affetto nei confronti degli anziani; a causa della mia paura più grande, invecchiare. Non mi faceva paura invecchiare a livello fisico, ma della vecchiaia mi terrorizzava la fragilità mentale e fisica; l’incapacità di poter essere indipendenti.
Quella paura mi aveva impedito a lungo di intrattenere rapporti interpersonali con persone di una certa età; li trovavo noiosi, banali, lamentosi, logorroici a tratti insopportabili. Addirittura anche negli ultimi anni di vita della mia adorata nonna, non mi era riuscito semplice continuare a mantenere il nostro rapporto di confidenza e tenerezza. L’aumentare del suo egoismo in alcune occasioni mi aveva infastidito talmente che, qualche volta, era sfociato in un forte sentimento di rabbia.
Eppure da qualche anno il conoscere una delle inseganti della scuola di counseling e il marito, ultrasettantenni, mi aveva fatto ricredere sullo stereotipo della vecchiaia che avevo. Ma forse, la cosa che aveva influito maggiormente e aveva aperto in me un varco, era aver iniziato a seguire un gruppo di crescita per anziani fragili organizzato e voluto da una delle associazioni con le quali collaboravo. I primi tempi del gruppo facevo veramente tanta fatica; riunito nel cerchio per circa un’ora e mezza ciascuno male si rapportava agli altri e al facilitatore del gruppo, i loro atteggiamenti molto infantili impedivano di creare un atmosfera di concentrazione e serietà. L’infinita pazienza che riuscivo a avere con bambini e ragazzi non riusciva a emergere in quelle occasioni e mi infastidivo immediatamente.
Forse la mia apertura nei confronti di quel gruppo e conseguentemente verso la terza età era iniziato quando ero riuscita per la prima volta a “contenerli”. Una mattina, dopo oltre un anno e mezzo che ogni quindici giorni o quasi ci recavamo al centro diurno, la psicoterapeuta con la quale tenevamo il gruppo non era potuta venire e ai miei dubbi di riuscire da sola aveva prontamente risposto rassicurandomi che ero perfettamente in grado di lavorare con il gruppo in maniera autonoma. Probabilmente le mie iniziali scuse erano più legate a non voler stare da sola con loro che alla mia incapacità. E così mi ero ritrovata tra loro, come al solito avevano iniziato a sovrapporsi nel parlare, a non ascoltare e a lamentarsi, finché spinta non so neanche io da quale illuminazione li avevo rimessi in riga, ma in maniera assertiva e delicata: nessuno si era sentito offeso dal mio intervento, comprendevano che se volevamo stare insieme era necessario ascoltarsi, quindi fare silenzio, stare attenti all’altro e intervenire non a sproposito, ma contestualizzando le parole alla situazione e non tanto per parlare! E al termine dell’ora alcuni di loro mi si erano avvicinati e mi avevano ringraziata.
Quando il signor D., che aveva mostrato molte volte resistenza e riluttanza rispetto al lavoro di socializzazione che proponevamo, mi aveva parlato stringendomi la mano avevo sentito una grande tenerezza e un senso di gratitudine inaspettata.