Ho rivisto con piacere il film che deve il suo titolo a una poesia di William Ernest Henley: Invictus. Non so quanto la storia sia romanzata o meno, ma fin dalla prima volta che ho visto la pellicola sul grande schermo non sono riuscita a non farmi coinvolgere. Il coinvolgimento è totale quando il coprotagonista riflette sulla capacità di Mandela di essere riuscito a perdonare chi l’aveva rinchiuso dentro una cella per quasi trent’anni. Mi commuove tutte le volte quel momento del film e mi fa riflettere: mi commuove, inoltre, pensare la grandezza dell’animo umano. Mi domando se questa capacità sia solo un privilegio concesso a pochi, oppure altri esseri umani non passati alla storia siano stati in grado di comportarsi così grandiosamente.
Dal profondo della notte che mi avvolge,
nera come un pozzo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dei qualunque essi siano
per la mia indomabile anima.
Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’orrore delle ombre.
Eppure la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
io sono il capitano della mia anima.
Out of the night that covers me,
black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
my head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
looms but the Horror of the shade,
and yet the menace of the years
finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
how charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.