Jean Piaget uno dei capisaldi della psicologia dello sviluppo fu uno dei primi a esporre i costrutti relativi a adattamento e accomodamento. Questi due concetti esprimono come il bambino durante le fasi della crescita, ma in generale l’individuo durante il corso dell’intera esistenza, trovandosi ad affrontare cambiamenti o eventi sconosciuti modifica i propri schemi, le proprie strutture psichiche e i propri processi cognitivi e comportamentali. Tutto questo avviene per mantenere un costante equilibrio omeostatico, di autoregolazione tra se e l’ambiente.
Questi accomodamenti avvengono anche in vista dell’integrazione sociale; infatti, essere integrati nelle attività collettive è un grosso vantaggio a livello evolutivo ed è fondamentale per la resilienza degli esseri umani. Ma spesso quest’inclusione viene fraintesa con omologazione e viene ricercata a tutti i costi: in questo modo diventa svantaggiosa per la vitalità dell’individuo, che non riesce a esprimere la propria essenza.
L’essere umano è l’unico tra gli esseri viventi a poter comprendere la differenza tra vivere e sopravvivere ed è anche l’unico che riesca a metterla in atto. Ricercare l’equilibrio omeostatico significa trovare attraverso i processi dell’accomodamento e dell’adattamento una nuova dimensione. Quella dimensione dovrebbe essere funzionale per l’individuo; tuttavia, spesso l’essere umano attua comportamenti e processi disfunzionali nella ricerca di quell’equilibrio tra le proprie esigenze e l’ambiente circostante.
Nel mondo animale e vegetale la ricerca dell’equilibrio omeostatico coincide sempre con la vita e può essere definito un processo “tutto o nulla”. Proprio come il segnale elettrico che guida i neuroni e permette che lo stimolo si trasformi o meno in messaggio, il regno animale e vegetale ricerca la vita oppure muore. Non esiste in natura una mediazione tra le due: una cosa può essere solo vitale o mortale.
Purtroppo gli esseri senzienti, possono riuscire a mantenersi in vita anche senza vitalità. La vitalità, che possiamo definire la spinta vitale che non solo mantiene in vita, ma che permette di raggiungere il proprio obiettivo principale, la propria unicità, non è sempre associabile alla vita tout court.
Ciò implica la possibilità di confondere quell’adattamento e accomodamento, necessari per rimanere in equilibrio vitale, con un processo di lenta assuefazione a stimoli e stili di vita non vitali. Un facile esempio di un accontentarsi può essere riscontrato in relazioni che si continuano a portare avanti senza che queste siano più fonte di nutrimento, crescita, stimolo, benessere o piacere.
La “via dell’accontentamento” può avere inizio in fasi precoci della crescita e per tale motivo diventa ancora più difficile da individuare o riconoscere. Tuttavia la domanda che può iniziare a rendere consapevoli se l’adattamento e l’accomodamento che sono stati messi in atto risultano funzionali per se stessi, può essere per esempio: <<cosa voglio veramente nella mia vita>>? Questa domanda semplice e banale può essere il primo indizio del nostro modus vivendi.
La risposta a questa domanda spesso viene banalmente liquidata con un: <<voglio essere felice, oppure, voglio stare in pace>>. Ma che cosa significa essere felici? Così come la tristezza non può essere allontanata dalla propria esistenza così la felicità non può essere una condizione permanente.
La ricerca di un proprio equilibrio psico-fisico può risultare un’alternativa fattibile rispetto a un processo funzionale di accomodamento, ma come riusciamo a sapere se la nostra psiche è in equilibrio?
L’equilibrio psichico di una persona si può valutare per esempio in base alle sue capacità di essere flessibile alle difficoltà dell’esistenza senza dover ricercare necessariamente un colpevole. Oppure si valuta considerando come sceglie di seguire o meno le proprie aspirazioni, o ancora come riesce a interagire con gli altri senza dover necessariamente considerare ogni confronto una lotta o una battaglia da vincere o perdere. Il confronto con l’altro è uno scambio anche quando le posizioni sulle quali ci si trova divergono totalmente. Quando lo scambio non è soddisfacente si ha sempre la possibilità di scegliere di non continuare a interagire.
L’equilibrio funzionale di un individuo si valuta soprattutto dalla sua capacità di prendersi la responsabilità delle proprie azioni e di affrontare gli avvenimenti della vita accorgendosi che non scegliere è una scelta. E ancora, che imparare a gestire le difficoltà è possibile senza necessariamente dover soccombere, deprimersi e scavalcare la propria vitalità.
La differenza tra accontentarsi e accomodarsi è sostanziale. L’etimo della parola accontentare deriva dal participio passato del verbo continere, tenere in se, contenere, insieme all’aggettivo contenuto, nel senso di misurato, morigerato. Accomodarsi deriva da commodus, opportuno, adatto utile. Parafrasando potremmo semplificare con: <<sono contento, ma solo il giusto>>, oppure <<quello che faccio è adatto a me>>.