Forse la sensazione fisica che più connotava quella quarantena era il freddo alle estremità: avevo quasi sempre i piedi ghiacciati e spessissimo anche le mani. Sicuramente il poco moto non aiutava la circolazione interna, ma soprattutto il freddo ai piedi era qualcosa che mi trascinavo dietro da tutta la vita. L’unico periodo dell’anno in cui non avevo i piedi freddi era l’estate piena, appena il caldo torrido diminuiva ero costretta a mettere le scarpe chiuse.
A causa di questa sofferenza appena potevo mi toglievo le scarpe e sedevo con i piedi incastrati sotto le gambe incrociate. In generale assumevo quella posizione anche con le scarpe, se la situazione e anche il tipo di sedia che avevo a disposizione lo permetteva.
Per chi non soffre di cattiva circolazione questo tipo di fastidio può apparire banale e incomprensibile, ma la percezione del freddo in quella zona amplifica e acuisce la sensazione di freddo in tutto il corpo. Non conosco il funzionamento del flusso sanguigno, ma per la rabbia mi fa andare “il sangue al cervello”.
E’ come se i miei piedi non possano toccare terra, non possano rimanere in una posizione socialmente accettabile e quando sono in un contesto formale il costringermi a rimanere con le gambe poggiate a terra, continuando a percepire le dita dei piedi talmente fredde da arrivare a farmi male, diventa una sofferenza atroce. Spesso mi impedisce perfino la concentrazione. Quando tutto questo accade, per ovviare metto solo una delle gambe incrociata sotto il sedere per non apparire troppo maleducata, così come le gru in mezzo alla palude sollevano una delle due zampe per evitare la dispersione del calore, io nella posizione della gamba in su tento di scaldarmi piedi e caviglie.
Nel periodo in cui ho sofferto di ernia espulsa il mio chiropratico non riusciva a credere che riuscissi a incrociare le gambe in quel modo, pare che le altre persone con la mia stessa ernia non riescano quasi a muovere le gambe. Probabilmente è una questione di abitudine, ma talvolta mi piace pensare che quella postura sia insita in me; sia il retaggio di una vita precedente, quella in cui mi aggiravo per l’oriente dove quella posizione è tipica.
Ma come mai in quell’isolamento soffrivo anche di freddo alle mani? Era come se all’estremo del mio corpo servisse qualcosa in più.
Estremità. Estremi – tà.
Estremo, esterno, estero, fuori.
Nel disegno della donna albero che avevo fatto tempo prima i piedi rappresentavano le radici e le mani rappresentavano i fiori: il mondo sotterraneo e il mondo esterno. Quel collegamento tra l’introspezione che l’isolamento ci costringeva a mettere in atto e la voglia di sbocciare e rendersi visibile al mondo che forse più che mai sentivo prepotentemente di voler attuare.
Tà (ra-tà) tà! Ancora una volta niente sembrava accadere per caso.