In gioventù non so per quale motivo tra le tante poesie studiate tra i banchi di scuola mi affascinava tantissimo una delle poesie di Foscolo. Probabilmente il suo oscuro fascino era fortemente collegato al periodo adolescenziale, dove realmente qualcosa del ragazzo muore per dare la possibilità di nascere all’adulto responsabile che si affaccerà al mondo. Ne In morte del fratello Giovanni, oltre a essere ammaliata da quanto evocato dalla poesia mi colpiva la musicalità di alcune parole. Ancor oggi, ripetendo sia il fior de’ tuoi gentili anni caduto, ma soprattutto la madre or sol, suo dì tardo traendo una sorta di gusto che si sposta tra la bocca e le orecchie mi lascia piacevoli sensazioni che nulla sembrano avere a che fare con la drammaticità del testo. La mia morte non mi incute paura o disagio; spesso mi trovo a parlarne con serenità e mi stupisco delle reazioni degli altri quando con cinismo e sarcasmo faccio battute sull’argomento. Chissà se invecchiando la paura inizierà a attanagliarmi, per adesso mi godo la soddisfazione di cantilenare senza timore il testo che segue!
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, mi vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto:
la madre or sol, suo dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto:
ma io deluse a voi le palme tendo;
e se da lunge i miei tetti saluto,
sento gli avversi Numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta;
e prego anch’io nel tuo porto quiete:
questo di tanta speme oggi mi resta!
straniere genti, l’ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.