Una delle mie vicine, forse l’unica con la quale ero riuscita a avere una sorta di quotidianità da quando abitavo nella nuova casa, dall’inizio della quarantena, oltre a telefonarmi, aveva preso l’abitudine di passare a salutarmi e già qualche volta eravamo rimaste a lungo a chiacchierare. Quel giorno però, era successo qualcosa di nuovo, la signora che abitava nella casa adiacente alla mia e con la quale non avevo nessun tipo di rapporto se non gli obbligatori saluti di routine, si era affacciata alla porta per vedere cosa stesse succedendo. Conosceva R. e quando aveva compreso che era espressamente venuta a trovare me ne avevo colto lo stupore. Nel paese mi conoscevano bene solo in pochi; la maggior parte dei paesani era schivo e poco socievole con la “frangia di non autoctoni” che da almeno quindici anni gradualmente aveva iniziato a stabilirsi in quella bellissima zona rurale; trasferendosi dalla metropoli o anche da paesi stranieri. Ma quella mattina era rimasta a chiacchierare con me e R. e per la prima volta avevamo avuto l’opportunità di guardarci bene negli occhi.
Qualche mattina prima avevo sentito un vocio sotto la mia finestra e da dietro le tendine avevo scorto un capannello di persone che chiacchieravano mantenendo le distanza di sicurezza: si trattava di alcuni degli abitanti delle case del mio vicolo, ma non avevo osato affacciami o uscire. Il gesto della signora, della quale avevo avuto modo di conoscere alcuni drammi familiari attraverso i muri confinanti delle nostre abitazioni, e il ricordo dell’assembramento dei giorni precedenti mi aveva fatto ripensare al tempo della mia vita in campagna quando andavo a portare il cibo ai sei gatti che avevamo con noi. Dai disparati luoghi dove erano accoccolati a sonnecchiare, si avvicinavano sempre più, strusciandosi sulle mie gambe, facendo le fusa e emettendo miagolii. Adesso, rinchiusi nelle nostre tane bastava il vocio di qualcuno a spingerci oltre il consueto in cerca di qualcosa che rievocasse l’idea di una socialità. Si trattava di uno dei bisogni primari: la fame di appartenenza; siamo animali sociali e l’istinto di sopravvivenza è legato anche a questo bisogno che in gran parte coincide con la possibilità di resilienza. Questo modo di essere così primitivo e innato aveva la possibilità di essere sentito profondamente in questo momento di isolamento e reclusione, era quella la nostra vera natura, era il nostro essere umani.
Mi chiedevo se questa nostra parte così profonda avrebbe continuato a connotare le nostre esistenza allorché tutto questo fosse finito. Forse, solo quello ci avrebbe permesso di ricostruire un mondo migliore, un mondo a misura d’uomo, a misura di essere umano.